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La mente medita

28 maggio 2005

 

 

Normalità è consapevolezza quando la vigilità è presente perché non ci si abbandona più ai labili sfarfallii di una mente che alla rinfusa rincorre tutto per paura che fermarsi debba esserle fatale.

 

La mente medita quando l’io lo concepisce possibile. Medita quando l’individualità si arrende ad una evidenza: la semplice constatazione che io e mente sono la stessa cosa poste su dimensioni diverse.

 

La mente è un alibi per non dover considerare chi si è nel piano in cui la stessa cerca di esprimersi imponendo la sua presenza come alternativa all’ascolto di quanto intimamente si possiede e che, aprendo all’interiorità, fa dell’ascolto l’attributo che consente vita e conoscenza; che da vita alla conoscenza.

 

Cogliere contemporaneamente dimensioni diverse (anche se interfacciate perché in fondo si tratta di interpretare la vita in funzione di proprie conoscenze e capacità che esprimono un modo di essere e pertanto parziale e relativo) presenta notevoli difficoltà se non ci si pone in modo adeguato rispetto a ciò che si intende valutare.

Valutare la mente, ponendosi su un piano diverso dal suo, se da un lato agevola perché da spettatore si colgono aspetti che sembra la possano condurre verso una quiete ragionata per così poter prendere ed apprendere oltre il velo che la stessa tesse con il suo ronzio continuo e costante, dall’altro non offre la possibilità dell’azione diretta per uniformarla ad un campo d’azione a lei possibile ma ostile perché lo teme come sua dipartita dall’esistere.

 

Un po’ come è per l’uomo che, temendo la morte come fine ed estinzione, fa di tutto per cercare di non cedere dovendo affrontare un ignoto che non gli offre la certezza che la vita sia anche oltre la sua scontata ed amata fisicità.

 

Valutare la possibilità che la mente possa essere disposta a meditare obbliga a doversi porre sul suo stesso piano. Obbliga a non doverla considerare come strumento ma come entità capace di espressione propria in linea con i principi per i quali opera.

 

Questi principi di natura interiore attengono al pensiero nella cui forma si sviluppa la possibilità di crescita in ambito metafisico per definire ruoli e modi di essere in linea con quanto la capacità lascia esprimere.

 

La libera espressione del pensiero avviene in ambito eterico dove poi ristagna in quanto, definita, diventa formazione autonoma che non include in sé chi ha pensato ma il suo stato, il suo essere; quindi solo ciò che comprende e concepisce.

 

Formazioni autonome, questi pensieri risultano vaganti in cerca di autore; cercano di aggregarsi con chiunque abbia minimamente attinenza col loro essere così da nutrirsi e dare sostegno a nutrimento.

 

La mente pertanto, direttamente connessa con tale ambito, non può che rilevare presenze che si esprimono a vario titolo mentre cercano di sopravvivere perché ormai qualificate come stato d’essere.

 

Il punto è capire come relazionarsi con la mente e come fare per disattivare la sua attenzione da ciò che in fondo le da l’energia che le sembra indispensabile perché le consente di agire vivendo.

Questo però dopo aver compreso che su tale piano si è la mente; dopo averlo sperimentato.

 

Si passa da un’azione che vuole costringere la mente a fare qualcosa (a non pensare), alla identificazione in un ruolo che, presenza attiva, ha sua vitalità che esprime ciò che considera vita.

 

Da qui alcune considerazioni per addentrarsi in un ruolo che solo se concepito può diventare di facile utilizzo. Addentrarsi che vuol dire sperimentare direttamente processi che aprono porte invisibili, veri e propri canali di percezione di energia viva ed intelligente che risiede in dimensioni più sottili dell’esistenza.

 

Proprio perché tutto è energia non si può quantizzarla nella sola condizione in cui si sperimenta un certo tipo di vita; bisogna riconoscere e saper accettare che la vita è in tutto e se ne ha percezione limitata perché limitati, cosa che però non può limitare la vita stessa.

 

Il presupposto base per aderire bene con la dimensione in cui la mente opera è non volerle imporre niente, non alimentando così processi di nessun tipo ed anzi portandola a sua volta ad aderire ad una condizione in cui essa stessa entra in meditazione ascoltando la voce del silenzio interiore.

 

Una mente messa da parte si ripresenta a formulare pretese, una mente che condivide si adegua ed inizia a percepire ciò che la pone nella condizione di concepire la vita sotto luce e profondità diverse rispetto la sua normale condizione.

 

Lo sforzo consiste solo nel saper accettare che oltre se stessi, e quindi anche oltre il piano in cui non si ha il controllo della mente che (libera) opera, costruisce e demolisce condizioni c’è qualcosa che unifica e che il solo riuscire a percepirne la presenza pone anche la mente nella condizione di voler ascoltare per nutrirsi di un’energia per lei nuova che la rende leggera e libera da una condizione in cui vita sembrava solo dover essere movimento; continuo movimento per non morire.

 

Questa constatazione (constatare che fermandosi non si muore) è porta che si apre e consente di iniziare ad apprendere di essere vivi sempre e comunque; ed in modo più consapevole e profondo proprio dove si teme che, regno della morte, la vita cessi.

 

Dentro se stessi ed in ogni cosa, qualunque sia la sua natura, c’è un Sole che accomuna perché parte inscindibile della stessa fonte che racchiude la vita. Essere vivi è vita, e se lo si è a diverse condizioni in dimensioni appropriate è solo perché non si è ancora concepito che vita non è un dono ma capacità. E il punto è che la capacità va conquistata e si ottiene solo attraverso la identificazione col proprio vero essere che è ben oltre le proprie limitate capacità.

 

La mente può ben essere una capacità da acquisire se la si coinvolge nel processo di crescita ed apprendimento del Bene Superiore che tutto nutre e tutto da.

Donare se stessi vuole anche dire essere capaci di saper prendere; azione doppia quando c’è egoicità, azione unica se si concepisce questo tipo di realtà.